Al posto dell’impero, l’isolamento

24.11.20233, di Tomasz Konicz

Tornare alle origini?

In quelli che sono i suoi ultimi giorni di vita, il capitalismo sembra tornare alle sanguinose origini all’inizio dell’età moderna, quando i nascenti Stati-Nazione cominciarono a intraprendere le loro incursioni imperialiste nelle Americhe, in Asia e in Africa. Cosicché, di conseguenza, sarebbe poi emerso il sistema globale capitalistico, con la sua suddivisione in centri, in semi-periferia e in periferia; il quale però ora sta cominciando a sgretolarsi a causa della globale crisi economica, sociale ed ecologica del capitale. I conflitti già scoppiati, così come quelli che si trovano in procinto di farlo, sono pressoché impossibili da tenere sotto controllo: Ucraina, Israele e tutto il Medio Oriente nel suo complesso, Taiwan, il Sahel, l’Iran, il Caucaso, il Kosovo. Quel che sembra sempre più probabile, è una guerra imperialista su larga scala, simile alla prima guerra mondiale, la quale va intesa come catastrofe primordiale del XX secolo. Ma quest’apparenza esteriore è ingannevole. La logica interna che governa questa dinamica geopolitica di fronteggiamento – che è già assai spesso militare – rimane sempre quella della crisi sistemica capitalista, che ora viene vista in quella che è la sua dimensione socio-ecologica. Un imperialismo di crisi, da intendersi come una lotta da parte dello Stato, per il dominio, nella fase in cui il processo di valorizzazione del capitale si va contraendo, e diminuisce fino a scomparire.

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Das Kapital, in quanto «contraddizione in processo» che ora, in assenza di un nuovo regime di accumulazione, va sempre più sbarazzandosi della propria sostanza – il lavoro creatore di valore – e lo fa sulla base di una razionalizzazione che viene mediata grazie alla più sfrenata concorrenza, in quello che è ormai un processo di crisi discontinuo e pluridecennale: deindustrializzazione, gigantesche montagne di debito, laddove, negli Stati falliti della periferia, vediamo anche un’umanità sempre più economicamente superflua. Mentre, a livello della sua dimensione ecologica, assistiamo al modo in cui il dissolversi del lavoro salariato, per quel che riguarda la produzione di merci, serve solo ad aumentare la fame di risorse da parte della macchina dello sfruttamento globale, che così poi, a sua volta, contribuisce ad alimentare la crisi del clima e delle materie prime. Di conseguenza, le contraddizioni che ne risultano – disordini sociali, sconvolgimenti economici, scarsità di risorse, eventi climatici e meteorologici estremi, ecc. – spingono verso le avventure imperiali – in ultima analisi militari – proprio quegli apparati statali, i quali, minacciati dalla disintegrazione, dispongono tuttavia ancora di mezzi di potere adeguati. Ciò che vediamo aumentare, è la disponibilità ad assumersi dei rischi geopolitici e militari, e questo proprio perché le opzioni di azione a disposizione delle classi dominanti e dei regimi, stanno diventando sempre più limitate.

L’aggressione imperialista della Russia contro l’Ucraina, condotta da una posizione di debolezza a causa e sulla scia delle rivolte sociali in Bielorussia e in Kazakistan – e motivata dall’erosione dell’influenza russa nello spazio post-sovietico – ne è un esempio paradigmatico. In preda al panico per le „rivoluzioni colorate“ in quella che è tuttora la sua sfera di influenza socialmente distrutta, il Cremlino ha optato per l’opzione militare. Anche la Turchia e l’Azerbaigian stanno usando la guerra come se fosse un parafulmine sociale. E questo, con l’aiuto della corrispondente propaganda nazionalista volta a far dimenticare l’inflazione e la crisi, avviene anche attraverso la pulizia etnica nel Nagorno-Karabakh o ad Afrin, In modo da poter così aprire delle nuove aree di insediamento (Nagorno-Karabakh), oppure a costruire delle prigioni a cielo aperto per i profughi della guerra civile, sorvegliate dagli islamisti (Afrin/Idlib).

Dal punto di vista dei lavoratori salariati della periferia, l’attuale prassi imperialista di crisi appare loro esattamente come il contrario di quello che era lo sfruttamento imperialista dei secoli passati. A quei tempi, l’imperialismo riforniva di nuove regioni e mercati il mercato globale capitalista; e quindi anche di nuova forza lavoro, per quanto lo facesse attraverso la schiavitù e per mezzo del lavoro forzato. L’imperialismo di crisi, invece, da parte sua si sforza e cerca in tutti i modi di isolarsi dai salariati „superflui“ che cercano di fuggire dalle regioni economicamente devastate della periferia meridionale; parti delle quali zone diverranno ben presto semplicemente inabitabili, a causa della crisi climatica. Invece, talvolta i rifugiati diventano un’arma geopolitica: il cinico gioco che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sta facendo con i movimenti dei rifugiati – così come l’attuale rifiuto da parte dell’Egitto di accettare l’evacuazione della popolazione civile di Gaza per dare così a Israele mano libera nell’agire contro Hamas – fa parte di questa nuova forma di conflitto.

Anche la pulizia etnica, insieme alle ondate di espulsioni, ne è un risultato (come avviene in Iran e in Pakistan, dove è stato annunciato che verranno deportati diversi milioni di afghani). In questo modo, la periferia, economicamente collassata, e con i suoi Stati falliti, svolge solo il ruolo di rifornire il centro capitalista di materie prime. Pertanto, l’imperialismo nell’attuale fase di crisi – durante la quale la globalizzazione con i suoi cicli di deficit minaccia di crollare – corrisponde a una combinazione di isolazionismo e di estrattivismo delle risorse. Nello sfruttamento imperiale della periferia da parte dei centri, possiamo osservare una tendenza storica verso forme di dominio e di controllo sempre più informali: la spinta che nel XIX secolo aveva portato, prima a controllare direttamente le colonie e i „protettorati“, e poi, nel XX secolo, aveva lasciato il suo posto all’imperialismo informale, praticato dagli Stati Uniti attraverso il rovesciamento e l’installazione di regimi dipendenti, in modo che così alla fine era rimasta solo la dipendenza finanziaria degli Stati indipendenti dalle istituzioni finanziarie globali dominate dall’Occidente, quali il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Oggi, invece, in quella che è la fase finale del sistema capitalista mondiale, il dominio imperialista sembra ridotto a essere solo il mero mantenimento di tutte quelle vie estrattive, attraverso le quali le risorse e i vettori energetici devono essere trasportati dalle aree di collasso economico ed ecologico, a quelli che sono i centri in crisi rimasti.

La crisi sistemica si concretizza anche nei conflitti militari; in quelli attuali, come Israele e la Striscia di Gaza, e in quelli storici, come nell’ultima grande spinta disgregativa durante la „primavera araba“ in Libia o in Siria: gli attori post-statali emersi dai processi di disintegrazione sociale e statale – milizie come la Wagner o la Azov, sette genocide come quella di Hamas o come lo „Stato islamico“, così come racket e bande – stanno acquisendo sempre più importanza nei calcoli imperialisti, proprio perché vengono strumentalizzati dalle potenze regionali, le quali ora agiscono sempre più liberamente, o dalle grandi potenze impegnate in quella che è una lotta senza speranza per l’egemonia. Tuttavia, è da tempo che queste forze anomiche si sforzano di agire come se fossero fattori di potere indipendenti. Così è stato, per esempio, per il caso del califfato genocida dello „Stato Islamico“, che durante la rivolta della Wagner è tornato per un breve momento a balenare – e sembra essere anche il caso di Hamas, che con la sua offensiva di furia omicida di massa, sperava di provocare una guerra regionale.

Il caos geopolitico e l’aumento dei conflitti, sono anche il risultato di quella che da un decennio si configura come la decennale perdita dell’egemonia economica degli Stati Uniti, la quale sta portando a ciò che potremmo definire un “disordine mondiale multipolare” (tanto per capovolgere, mettendola a testa in giù, una delle frasi preferite di Vladimir Putin). I sovra-indebitati Stati Uniti, ormai in una situazione di declino imperiale, non sono più disposti a – o non sono in grado di – svolgere il famigerato ruolo di „gendarme del mondo“, come hanno fatto in quelli che sono stati i suoi interventi degli anni ’90, facendo sì che oggi, ogni genere di potenza regionale importante, a sua volta spinta dalla crisi, possa adesso sviluppare maggiormente e sempre più le proprie ambizioni imperiali. Gli Stati Uniti si stanno concentrando sulla lotta egemonica contro la Cina e i suoi alleati eurasiatici, costruendo un sistema di alleanze che si estende oltre l’Atlantico e il Pacifico.

Questa lotta globale senza speranza, tra l’Eurasia e l’Oceania – unitamente a tutti i prodotti della decadenza anomica di crisi, e insieme al numero crescente di contrapposizioni tra stati regionali, i quali interagisco tra di loro – nel quadro di crisi-imperialista, ne costituisce il livello conflittuale più alto. Ed è senza speranza, poiché un’egemonia globale – come quella detenuta dalla Gran Bretagna, prima, e dagli Stati Uniti poi – non può più essere ottenuta; e questo a causa della mancanza di un’adeguata base economica. L’egemonia degli Stati Uniti, come forma di costruzione di alleanze accettate, si è basata sulla congiuntura fordista del dopoguerra e fino agli anni ’70, ed è stata poi mantenuta nel quadro dell’economia neoliberista delle bolle e dei corrispondenti cicli del deficit – con gli Stati Uniti in quanto paese deficitario più importante – e fin dall’inizio, dopo la fine della Guerra Fredda, si è ulteriormente ampliata.

Ora, gli Stati Uniti non possono più permettersi né l’una né l’altra cosa, almeno a partire dall’avvento dell’attuale stagflazione. Ciò che rimarrebbe sarebbe solo un dominio nudo e crudo; e questo anche nel caso della Cina, la quale è altrettanto sovra-indebitata, e soffre da tempo. sia a causa delle bolle immobiliari, sia in quanto finanziatrice della crisi del debito globale. Di conseguenza, l’imperialismo in crisi sta scivolando sempre più verso una guerra su larga scala, la quale, nel caso non fosse possibile trovare una via d’uscita sociale dalla crisi capitalistica permanente, condurrebbe il processo di civilizzazione a una fine barbara. Di conseguenza, in questi conflitti in rapida escalation, una vera vittoria potrebbe essere quindi ottenuta solo con mezzi non militari: attraverso e grazie allo sviluppo di una nuova forma post-capitalistica di riproduzione sociale. Tutta la speranza e tutto l’orrore si trova oggi a essere racchiuso in questo semplice fatto.

Tomasz Konicz [***] – Pubblicato il 23 novembre 2023 – su Jungle World, 16.11.2023 –

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