Quello che deve risolvere le cose, è lo Stato

25.06.2023

Le tensioni geopolitiche e il cambiamento climatico stanno rilanciando l’intervento dello Stato e la sua politica industriale. Lo ha dimostrato, di recente, il dibattito riguardo la partecipazione di una società statale cinese al porto di Amburgo
di Tomasz Konicz

Globalizzazione, libera circolazione delle merci, libertà di investimento: da qualche tempo, i pilastri del neoliberismo sembrano vacillare. La «mano invisibile» del mercato, come recita la famosa metafora di Adam Smith, viene di nuovo frequentemente guidata dall’intervento dello Stato, spesso per motivi di sicurezza e geopolitici. Per molti anni, la Germania, in quanto ex campione mondiale delle esportazioni, ha beneficiato più di ogni altro Paese della libera circolazione di capitali e merci. Ma da tempo, anche rispetto a questo, il tono protezionistico è tornato a prevalere. Lo dimostra il caso del porto di Amburgo. La società statale cinese, „Cosco“, intende acquisire una partecipazione di minoranza nella società che gestisce il più piccolo dei quattro terminal container di Amburgo; il Container Terminal Tollerort (CTT). Ma i terminal sono stati classificati dal governo tedesco come infrastrutture critiche, motivo per cui bisogna che il governo ne debba approvare la vendita. L’ingresso della Cosco nel mercato, ha suscitato una grossa polemica. Alla fine del mese di aprile, Die Zeit ha criticato, per aver aperto a questa acquisizione, quella che a suo avviso rappresenta la «vecchia mentalità di mercato» del Parlamento e del Senato di Amburgo. Non tutto ciò che promuove il fatturato, è per questo anche «politicamente corretto o sostenibile», afferma il settimanale di Amburgo. La Cosco fa parte di un gruppo di circa 100 imprese statali, le quali agirebbero interamente nell’interesse del partito di Stato cinese – e, in ultima analisi, del «capo di Stato Xi Jinping» – con l’obiettivo di «aumentare innanzitutto l’influenza del regime autoritario». La partecipazione di Cosco in CTT, non le darebbe accesso diretto alle infrastrutture portuali, ma la società cinese, anche nel caso di una partecipazione di minoranza, avrebbe comunque accesso a dei dati sensibili. E sarebbe pertanto «irragionevole credere» che la società statale non trasmetta poi tali dati interni al governo di Pechino, o non agisca «nell’interesse del partito» per quelle che sono le decisioni economiche; come ha spiegato Die Zeit. Una posizione opposta è stata espressa – a metà maggio – dal presidente dell’Associazione dei datori di lavoro, Rainer Dulger, che riduce le divergenze tra il governo tedesco e il regime cinese a una «politica moralistica». Si tratta di una «strada sbagliata» che nei confronti del «nostro più grande partner economico» non dovrebbe essere seguita. La Germania farebbe bene a «continuare a rassicurare i nostri partner cinesi sul fatto che manteniamo la nostra amicizia», chiede Dulger. Queste contraddizioni della strategia tedesca nei confronti della Cina – che possono essere descritte approssimativamente come un conflitto tra interessi geostrategici ed interessi economici – si riscontrano anche all’interno dello stesso governo tedesco. In linea di principio, i partner della coalizione concordano sulla necessità di ridurre la dipendenza dalla Repubblica Popolare ma, soprattutto per molti socialdemocratici, gli sforzi di smarcarsi da parte del ministro degli Esteri Annalena Baerbock (Verdi) si spingono troppo oltre. Durante il suo recente viaggio in Cina, Baerbock ha criticato chiaramente le violazioni dei diritti umani. In risposta, il ministro degli Esteri cinese Qin Gang ha dichiarato che la Cina non ha bisogno di un «professore occidentale», e che ogni Paese ha il proprio contesto culturale e storico, per cui «nel mondo non esistono standard uniformi».

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