L’outsourcing e le catene di approvvigionamento complesse possono far risparmiare sui costi, ma molte aziende cercano sempre più di controllare autonomamente il maggior numero possibile di fasi di produzione. La cosiddetta integrazione verticale è una reazione alla crisi capitalista permanente e ai conflitti politici globali
11.01.2024, di Tomasz Konicz
All’inizio c’era Tesla, e non solo come pioniere dell’autoinganno ecologico che viene rappresentato dall’elettro-mobilità capitalistica, ma anche come avanguardia di una nuova struttura organizzativa che attualmente viene imitata e ampiamente applicata ovunque come risposta alle molteplici crisi. Il principio di Tesla ha conosciuto la sua svolta durante la pandemia di Covid-19. A partire dal fatto che Tesla ha organizzato, in larga misura, tutto il processo di produzione, dalla fabbricazione di numerose parti singole fino alla produzione delle auto e alla loro vendita, l’azienda automobilistica è riuscita così a ridurre al minimo gli effetti dirompenti della pandemia, di cui hanno sofferto soprattutto quei settori industriali altamente globalizzati, come quello automobilistico. Fino a poco tempo fa, una simile strategia di „integrazione verticale“ era poco comune; nell’era neoliberista, nelle multinazionali, dominava il perseguimento della „integrazione orizzontale“. In termini di struttura organizzativa, Tesla era un outsider e tuttavia durante la pandemia è riuscito a far centro. In economia, l’integrazione orizzontale si riferisce a strategie aziendali volte ad aumentare la quota di mercato attraverso l’acquisizione dei concorrenti. Una quota di mercato più elevata, riduce la pressione competitiva, apre nuovi mercati e rafforza la posizione negoziale nelle catene di approvvigionamento globali. Il fine e l’obiettivo di ogni concorrenza di mercato è il monopolio. ad esempio come quello che Microsoft ha raggiunto nel segmento dei sistemi operativi per computer. Nell’era della globalizzazione, la ricerca del dominio „orizzontale“ del mercato da parte del capitale, è andata di pari passo con una tendenza all’esternalizzazione, vale a dire, alla dismissione di quelle aree del business che non fanno parte del nucleo: aree, o fasi di produzione ad alta intensità di manodopera, dannose per l’ambiente o meno redditizie (prodotti grezzi, componenti, servizi) sono state esternalizzate, formalmente o fisicamente indipendenti, a società esterne spesso situate in paesi a basso salario. Di solito tutto ciò veniva accompagnato da vere e proprie ondate di licenziamenti, nei centri. In sostanza, per aumentare i profitti, l’esternalizzazione si basava su un deterioramento delle condizioni di lavoro, su una riduzione del costo della merce forza-lavoro , in quanto „capitale variabile“ (Marx) nel processo di valorizzazione. Nell’era della globalizzazione, sono apparse delle catene di produzione e di approvvigionamento globali ingestibili e ampiamente ramificate, le quali hanno permesso a quelle imprese che erano orizzontalmente integrate nei centri del sistema globale di esercitare il loro potere di mercato contro un numero ingestibile di fornitori che si trovavano nella periferia, dove lo sfruttamento continua a essere caratterizzato dai primi tratti capitalistici.
Link: https://francosenia.blogspot.com/2024/01/nella-crisi-tardo-capitalista-realmente.html
Tesla come modello di integrazione verticale
L’integrazione verticale, invece, nel neoliberismo globalizzato rappresenta un fenomeno eccezionale, poiché adotta l’approccio opposto: una società cerca di ottenere il controllo diretto sia sulla catena di approvvigionamento che su tutto l’intero processo di produzione e di distribuzione. Tesla produce batterie, software di controllo, sedili auto e motori elettrici. Durante la pandemia – allorché il trasporto marittimo di container si è fermato temporaneamente e in molti paesi le fabbriche hanno dovuto chiudere, con conseguente carenza di componenti ovunque – questo ha dato i suoi frutti. Nel corso del periodo di ristrettezze e limitazioni delle forniture, nell’anno pandemico 2021, Tesla – un’azienda „assurdamente integrata verticalmente“, secondo le parole del suo CEO, Elon Musk – è stata in grado di aumentare le vendite dell’87%. Altre case automobilistiche, come General Motors (GM), hanno seguito l’esempio. GM, non solo sta realizzando fabbriche di batterie per i suoi veicoli elettrici negli Stati Uniti, ma il gruppo si sta assicurando anche l’accesso esclusivo all’estrazione di materie prime in Quebec (materiale catodico attivo) e nel sud della California (litio). Ford, storicamente pioniera dell’integrazione verticale, ha già costruito un proprio stabilimento per i motori elettrici, mentre i produttori tedeschi, che spesso hanno creato in Europa delle fabbriche di batterie, in joint venture, ora stanno soprattutto cercando di reintegrare sotto il proprio ombrello aziendale tutta la produzione di software. Fino agli anni ’70, le case automobilistiche producevano in media il 90% dei loro veicoli, ma negli ultimi anni questa quota era scesa a un’appena 50%. Ora, questa dinamica si sta invertendo, e questo non solo nell’industria automobilistica. Anche i produttori di marchi – ad esempio di beni di consumo come l’abbigliamento – ora puntano alla verticalizzazione, eliminando sempre più il commercio al dettaglio per mezzo della creazione di propri negozi o attraverso le vendite online. Tuttavia, in seguito a ciò, anche i gruppi di vendita al dettaglio stanno passando alla strategia dell’integrazione verticale, come avevano fatto finora i discount tedeschi come la Lidl, con i loro marchi privati a basso costo. Edeka ha acquistato panifici e pastifici, mentre nel marzo 2023 il Gruppo Rewe ha acquisito una grande macelleria. Questa massiccia ondata di acquisizioni nel settore della vendita al dettaglio, mira a salvaguardare e a garantire le catene di approvvigionamento. Qualcosa di simile sta accadendo anche negli Stati Uniti, dove il gigante della vendita al dettaglio, Walmart, sta investendo centinaia di milioni di dollari per creare la propria catena di approvvigionamento di carne bovina.
L’integrazione verticale come strategia di crisi
Gli sconvolgimenti ecologici e geopolitici del mercato mondiale altamente globalizzato, che stanno aumentando in frequenza e gravità a causa della crisi socio-ecologica del capitale, rendono necessarie tali strategie di crisi; dal momento che l’integrazione verticale è proprio questo una strategia di crisi. Già a metà del 2022, la rivista britannica The Economist descriveva il modo in cui le crescenti tensioni e shock (pandemia e guerra in Ucraina) stessero mettendo a dura prova le catene di approvvigionamento globalizzate, mettendo così in moto quello che rappresenta un cambiamento fondamentale, in quanto i dirigenti delle sedi centrali delle aziende avevano cominciato a prestare sempre più attenzione a disporre di «catene di approvvigionamento, che fossero non solo efficienti, ma anche robuste». Oltre all’integrazione verticale, si ricorre anche ad altre strategie, come la creazione di nuove, e più grandi, capacità di stoccaggio, come ad esempio quello che proviene dall’accumulo di materie prime e di componenti, oppure attraverso la creazione di siti di produzione in diverse regioni del mondo, in modo da poter così attutire le crisi regionali. La stessa cosa vale anche per la tendenza a stipulare contratti a lungo termine con diversi fornitori di materie prime. Il trend all’integrazione verticale – simile a quello del nearshoring – è quindi parte di un cambiamento complessivo nella struttura produttiva e commerciale globale, che equivale a una vera e propria de-globalizzazione, dovuta alla crisi. Con l’integrazione verticale, soprattutto, il capitale sta riproducendo oggi un modello industriale di organizzazione che coincide con quello che si era diffuso nella fase finale del socialismo realmente esistente: i Kombinat industriali. Un modello che si basava sull’idea, nata dalla necessità, di produrre in un’unica azienda il maggior numero possibile di prodotti intermedi, in modo da contrastare gli onnipresenti problemi di approvvigionamento del socialismo di Stato. Questo, dal momento che nessuno si fidava dei propri fornitori e gli intoppi e i blocchi nelle forniture costituiscono una situazione permanente. L’impulso all’accaparramento e all’integrazione verticale si é rivelato utile a gestire le carenze, così come veniva praticato dal capitalismo di Stato dell’Europa dell’Est nella fase del suo stagnante Declino. E questo vale altrettanto per la ricostituzione delle capacità di stoccaggio, che oggi, nell’era della globalizzazione neoliberista con la loro produzione just-in-time, sono state spesso esternalizzate verso le infrastrutture, alle strade e alle vie di trasporto. Nel capitalismo di Stato realmente esistente, tutte le aziende si sforzavano di ottenere il più ampio stock di scorte possibile, di materie prime e componenti, in modo da poter essere così preparate ad affrontare le situazioni di limitazioni all’approvvigionamento, le quali non facevano altro che aumentare la carenza generale.
Una copia in miniatura della struttura industriale sovietica
L’attuale regionalizzazione delle strutture estrattive e produttive delle grandi imprese corrisponde alla sua controparte che c’era nel capitalismo di Stato del cosiddetto blocco orientale: tutte quelle economie formavano una copia in miniatura della struttura industriale sovietica, poiché la divisione internazionale del lavoro, che avrebbe dovuto andare di pari passo con la specializzazione nei singoli rami e settori dell’industria, tra i membri del „Consiglio di mutua assistenza economica“ (Comecon) semplicemente non funzionava. L’interdipendenza internazionale delle economie del blocco orientale „internazionalista“, durante la sua fase di declino, era inferiore rispetto a quella dell’Occidente. L’infermità del capitalismo di Stato di stampo sovietico, dell’Europa orientale, si rispecchia quindi sull’attuale crisi dei centri occidentali del sistema globale. L’integrazione verticale, il mantenimento di maggiori capacità di stoccaggio, la creazione parallela di più siti regionali di produzione per il medesimo prodotto (primario), gli inflessibili contratti di fornitura a lungo termine: tutte queste misure finiscono per aumentare i costi e, in ultima analisi, i prezzi dei beni relativi corrispondenti. Pertanto, diventa probabile che tutte queste strategie di aggiustamento della crisi tardo-capitalista, finiscano per essere solo un altro fattore che alimenta l’inflazione generale; e questo dal momento che i costi vengono sempre scaricati sui salariati.
Tomasz Konicz – Pubblicato il 4/1/2024 su Jungle World