Poco prima della deflagrazione

L’escalation in Medio Oriente potrebbe involontariamente innescare nella regione un grave conflitto –

23.10.2023, di Tomasz Konicz

Più di 1.300 israeliani morti, e una scommessa diplomatica rovinata. Nel suo intento antisemita, la furia offensiva di Hamas non solo è riuscita a uccidere il maggior numero possibile di ebrei e a traumatizzare la società israeliana. Ma l’eccesso di violenza ha anche silurato, per ora, il riavvicinamento tra Israele e Arabia Saudita, e che era stato mediato da Washington. Prima delle elezioni statunitensi del 2024, l’amministrazione Biden intendeva realizzare la normalizzazione delle relazioni tra quelli che sono i suoi principali alleati nella regione; cosa assai poco realistica, data l’escalation a Gaza. Le speranze di normalizzare le relazioni tra Gerusalemme e Riyadh potrebbero essere diventata l’ennesima „vittima della guerra“; hanno scritto i media statunitensi pochi giorni dopo che la guerra era scoppiata. Tuttavia, quest’ultima iniziativa si basava su un lavoro diplomatico a lungo termine. Nel settembre del 2020, gli Stati Uniti avevano mediato il cosiddetto Accordo di Abramo, in base al quale venne poi avviata la normalizzazione delle relazioni tra Israele, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein. A questo processo di normalizzazione, che ha portato alla creazione di missioni diplomatiche negli Stati partecipanti, avevano aderito anche Marocco e Sudan. Prima di allora, nella regione, Israele era in gran misura isolato. Patrocinato da Washington, il processo normalizzatore è stato anche lubrificato per mezzo di ingenti incentivi economici: turismo, commercio bilaterale, investimenti e vendita di armi. Grazie a quell’accordo, il governo di destra del primo ministro Benjamin Netanyahu sperava di riuscire a stabilire delle relazioni diplomatiche ed economiche senza dover negoziare lo status dei territori palestinesi. Ma a ogni modo, anche il canale di notizie del Qatar, Aljazeera, ha riferito a proposito di tensioni tra Israele ed Emirati sulla questione palestinese, ancora un anno dopo la firma.

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Discordia diplomatica

Per quanto riguardava l’Arabia Saudita – il peso massimo sunnita che avrebbe dovuto rendere irreversibile il processo di normalizzazione arabo-israeliano – Washington era persino disposta a mettere in discussione il tabù nucleare. Alla dittatura wahhabita era stato promesso non solo un accordo militare globale, ma perfino un programma nucleare. La cosa avrebbe controbilanciato «ciò che hanno sviluppato gli arci-rivali dell’Iran»; come hanno scritto i media statunitensi. Il recente avvicinamento con Israele prometteva dei benefici economici e politici tangibili in Medio Oriente, in parte perché così veniva messa in discussione l’egemonia nella regione. Le potenze tradizionalmente dominanti del mondo arabo – l’Egitto e l’Arabia Saudita – ora si trovano di fronte a due potenti concorrenti, la Turchia e l’Iran. In molte capitali arabe – fino all’omicidio di massa perpetrato da Hamas – il redditizio riavvicinamento a Gerusalemme veniva visto come un buon contrappeso geopolitico rispetto agli sforzi di dominio in atto da parte dell’Iran e della Turchia, Durante la crisi di Gaza, sia il governo di Teheran che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il quale sostiene apertamente Hamas, sono stati particolarmente duri nelle loro critiche nei confronti di Israele e degli Stati Uniti, al fine di trarre così un vantaggio politico a partire dalla crisi nelle strade arabe. Pertanto, i regimi autoritari del mondo arabo vedono anche l’escalation in corso a Gaza come se fosse un fattore di incertezza politica interna, dal momento che le forti emozioni e le massicce proteste contro la dura campagna militare israeliana potrebbero dare una spinta all’estremismo islamico. La dichiarazione finale dei ministri degli Esteri della Lega Araba, del 12 ottobre, ha condannato «l’uccisione di civili messa in atto da entrambe le parti», e ha chiesto la ripresa del processo di pace con l’OLP – secondo il segretario generale della Lega Araba Hossam Zaki – che viene visto come «unico legittimo rappresentante dei palestinesi». La dichiarazione può essere intesa anche come un attacco indiretto alla legittimità di Hamas. I paesi prudenti, come la Giordania, che da tempo sono scesi a patti con Israele, hanno visto chiudere, su istigazione di Gerusalemme, il confine con la Cisgiordania. E allo stesso tempo Amman ha smentito le notizie secondo cui le basi militari nel paese erano state messe a disposizione dell’esercito americano. Gli Emirati e il Bahrein, sono arrivati persino direttamente a condannare l’attacco di Hamas. Anche per quanto riguarda il dittatore siriano Bashar al-Assad, il quale, dopo molti anni di guerra civile, controlla solo una parte del territorio del paese, appare improbabile che egli abbia qualche interesse a prendere le armi contro Israele, considerata la fragilità del suo apparato statale. Oltre ad Ankara e Teheran, anche la Siria e il finanziere di Hamas – il Qatar – hanno emesso una dura condanna di Israele. A causa delle pressioni politiche interne delle forze wahhabite, anche l’Arabia Saudita ha condannato le azioni militari del governo israeliano, sostenendo così verbalmente quella che vuole essere la sua pretesa di leadership nel mondo arabo. Anche l’Iran sembra voler evitare uno scontro militare diretto con Israele e con gli Stati Uniti. Mentre nel caso di un’offensiva di terra a Gaza, Hezbollah minacciava di guerra lo Stato ebraico, Teheran – nel corso di dichiarazioni pubbliche di solidarietà con Hamas – si affrettava a negare qualsiasi suo coinvolgimento concreto nella pianificazione dell’offensiva terroristica. Sembra che Teheran, in caso di escalation da parte di Hezbollah, voglia utilizzare il corridoio sciita (Iraq, Siria, Libano meridionale) per condurre una guerra per procura contro Israele. Perfino la famigerata milizia sciita, che controlla parti del Libano, sembra attenersi al suo annuncio secondo cui attaccherà solo in caso di offensiva di terra. Sembra che nel mondo arabo non ci sia nessuno, che detenga un potere statale, anche il più fragile, che voglia la guerra. Alla luce dei processi di crisi e di disintegrazione degli Stati e delle società della regione, al guerra potrebbe trasformarsi in un’esplosione incontrollata.

Spinta per Hamas

Eppure, tuttavia, a causa della crisi le tensioni nella regione stanno aumentando: ad esempio, tra Egitto e Israele. L’Egitto si rifiuta di accettare i profughi di guerra provenienti da Gaza. Mentre il governo israeliano, secondo le dichiarazioni del suo esercito, chiede la loro evacuazione, nel Sinai, in modo da poter avere mano libera nella distruzione di Hamas. Il Cairo, invece, da parte sua, vuole rifornire gli abitanti di Gaza – che si trovano costantemente sotto tiro, e le cui linee di rifornimento sono state tagliate da Israele – per mezzo di convogli umanitari organizzati insieme ad altri paesi arabi, come la Giordania. L’esercito israeliano vuole però che il suo attacco al valico di frontiera egiziano con Gaza vada inteso come un avvertimento per sventare un simile piano. Il Cairo, del resto, vede qualsiasi evacuazione dei palestinesi dalla Striscia di Gaza come se fosse una pulizia etnica della regione, come una seconda Nakba che dev’essere impedita a tutti i costi. Nel frattempo, a causa di queste tensioni, l’esercito israeliano sembra voler attaccare prima il nord della Striscia di Gaza. Così, il 13 ottobre, alla popolazione di circa 1,1 milioni di persone è stato ordinato di fuggire nel sud della Striscia di Gaza, entro 24 ore. La stretta striscia di terra è una delle aree più densamente popolate del mondo. Più di due milioni di palestinesi, governati in maniera autoritaria da Hamas, si trovano così a essere intrappolati tra i due fronti di questo conflitto omicida. Il regime militare egiziano, che durante la primavera araba si era trovato sul punto di stabilire il dominio dei Fratelli Musulmani, ora non vuole un’escalation con Israele. Tuttavia, la crisi, che riguarda la disputa circa milioni di persone rimaste intrappolate nella prigione a cielo aperto di Gaza, e che agli occhi dell’Egitto appaiono come economicamente „superflue“, ora sta spingendo ulteriormente e sempre più il paese nello scontro e nella destabilizzazione. D’altra parte, al contrario, le forze islamiste „post-statali“ come Hamas, che ritengono di trovarsi all’opposizione nei confronti dei timidi regimi arabi, hanno invece un reale interesse per un’escalation. L’omicidio di massa, perpetrato da parte di Hamas nei confronti dei residenti dei kibbutz e dei raver hippie in Israele, potrebbe quindi anche aver tenuto conto di una sorta di calcolo pan-arabo: per questo,la normalizzazione di Israele nella regione araba è stata silurata, e la pressione bellica nei confronti delle strade impoverite, auspicata da Hamas, ha lo scopo di dare una spinta all’islamismo.

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