Parola d’ordine «giustizia climatica»?

14.09.2023

Il modo in cui l’opportunismo tedesco di sinistra ha addomesticato il movimento per il clima –

di Tomasz Konicz

Rispetto alla crisi climatica, la sinistra tedesca arriva in ritardo; e oltretutto lo fa portandosi dietro un anacronistico bagaglio ideologico. Quasi tutte le correnti di quella stessa sinistra fermamente conservatrice, che per decenni ha ridicolizzato o banalizzato la crisi climatica, è passata ora all’uso inflazionistico del termine „giustizia climatica“. Non c’è volantino, evento, o appello a una manifestazione che riesca a fare a meno dell’uso di una parola che sembra solo stia cercando di associare e mescolare la „questione sociale“ alla crisi climatica. Dal „Junge Welt“ a „Jungle World“, dal Partito della Sinistra alla famigerata sinistra sindacale, dai post-autonomisti ai vecchi marxisti; se esiste ancora un denominatore comune in quelle che sono le dichiarazioni relative alla politica climatica provenienti da questo spettro in regressione, be‘ allora esso è costituito dall’uso inflazionistico di una parola nella quale, in realtà, a fondersi sono solo opportunismo, pigrizia e cecità ideologica. Giustizia climatica significa che le questioni climatiche devono essere affrontate in modo equo. Così, nelle diverse varianti, viene richiesta un’equa distribuzione degli oneri relativi alla trasformazione ecologica della società („de-carbonizzazione“) e/o quegli oneri che hanno a che fare col sopportare le conseguenze dovute al cambiamento climatico. A livello globale, giustizia climatica significherebbe che le aree metropolitane ricche, dovrebbero essere loro a sopportare il peso della crisi climatica e della de-carbonizzazione, al fine di alleviare e sostenere in tal modo la periferia martoriata. La crisi climatica viene vista come se fosse il grande catalizzatore che dovrebbe consentire una redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso; e questo tanto all’interno della società vera e propria quanto globalmente, tra centri e periferie. In particolar modo, a essere formulata a partire dal concetto di giustizia climatica, è la critica dei Verdi, che pertanto lamenta, nelle misure di politica climatica di Berlino, la mancanza di una componente sociale.

Solo che il grande problema, con tutti i discorsi sulla giustizia climatica, è semplicemente quello che la crisi climatica non è affatto una crisi distributiva, e pertanto, di conseguenza, non si può rispondere a essa sollevando la questione sociale. La crisi climatica è una crisi sistemica [1], che pone perciò in maniera inevitabile una questione sistemica: il capitale, in quanto valore che si valorizza per mezzo della produzione di merci, deve consumare, bruciandole, le risorse del mondo, deve privare l’umanità delle sue basi ecologiche di vita in modo da poter così continuare a garantire il suo illimitato processo di valorizzazione [2]. L’eterna creazione di plusvalore, costituisce l’essenza della dinamica feticistica del capitale. E tutto questo dev’essere trasformato in storia; oppure sarà questo che trasformerà in barbarie il processo di civiltà. Non si tratta di „ripartire gli oneri“, ma di lottare per una alternativa sistemica in cui valga la pena vivere. Detto concretamente, si tratta di superare in maniera emancipatoria la forma merce, la quale oggi consente che i bisogni vengano soddisfatti solamente se farlo genera ancora domanda di mercato. Non si tratta di distribuire più equamente quella che è una produzione di merci ecologicamente disastrosa – la quale è solo espressione del processo di valorizzazione del capitale – ma bisogna superarla prima che tutto questo si trasformi in barbarie. Anziché blaterare di giustizia climatica, una sinistra che volesse ancora agire in maniera progressiva, secondo la sua visione, in modo da indicare la necessità di una sopravvivenza della civiltà nel superamento emancipatore della relazione di capitale vista come totalità sociale, dovrebbe parlare di una crisi climatica capitalistica. Non perché ciò sarebbe „popolare“, ma perché corrisponderebbe alla realtà oggettiva della crisi e perché è semplicemente la verità. La trasformazione del sistema, è una necessità oggettiva che deriva dalle contraddizioni ecologiche ed economiche, interne alla dinamica del capitale, la quale si serve del mondo come se fosse solamente mero materiale di quella che è un’auto-valorizzazione reale-astratta [3]. Di conseguenza, le società tardo capitaliste si sfalderanno e verranno distrutte dalle proprie contraddizioni. Resta da vedere che cosa verrà dopo. Ciò verrà deciso nel corso di quella che sarà la prossima lotta di trasformazione [4]. Il compito della sinistra dovrebbe pertanto essere quello di diffondere tra la popolazione una coscienza radicale della crisi, in quanto precondizione della possibilità di una trasformazione emancipatoria. Per superare il feticismo del capitale che attraversa in maniera inconscia l’umanità, in modo da arrivare a dare una forma consapevole al processo di riproduzione sociale, il primo passo dovrebbe essere quello di rendersi conto della natura della crisi, così come l’abbiamo qui delineata. Per trovare una via d’uscita, le persone dovrebbero essere in grado di riflettere fino a che punto si trovano ora profondamente immersi nella merda capitalista. Si tratta semplicemente di dire qual è il problema. E farlo, non è affatto difficile o complicato. Le argomentazioni, secondo le quali, in un mondo finito la crescita infinita è impossibile, sono, per cominciare, penetranti e in genere comprensibili, senza però semplificare eccessivamente o distorcere il problema. Nel frattempo, tra la popolazione si è da tempo generalizzata una consapevolezza ottusa e irriflessa della crisi; la quale è piuttosto qualcosa come una premonizione della crisi sistemica. Su tale premonizione di una crisi sistemica, si tratta di riflettere consapevolmente, al fine di formare una coscienza radicale della crisi; vale a dire, una consapevolezza che faccia della necessità di sopravvivere la base di ogni pratica di una trasformazione emancipatoria del sistema.

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