La Cina e l’impossibile modernizzazione in ritardo

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La Cina è oggi il paese che emette più gas serra. Nonostante tutti i programmi per la produzione di energie rinnovabili, il capitalismo di stato del paese è responsabile di quasi il 30% delle emissioni globali di biossido di carbonio. Questo spiega l’incompatibilità tra capitalismo e moderazione climatica. E non solo nei paesi emergenti.

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Sembra pura pazzia politico-climatica il fatto che in piena crisi climatica la Cina ampli la sua dipendenza dal carbone fossile. Secondo uno studio del Global Energy Monitor (GEM) pubblicato alla fine di giugno, sono in costruzione centrali a carbone per un totale di quasi 250 gigawatt. Più di tutte le centrali a carbone degli Stati Uniti.

Prosegue così, apparentemente, la tendenza di lungo termine ecologicamente disastrosa che ha accompagnato la rapida ascesa del vecchio paese emergente a “fabbrica mondiale” e fattore di potere geopolitico. Tra il 1990 e il 2017 le emissioni di CO2 della Repubblica Popolare sono cresciute di quasi il 350%, in gran parte in quest’ultimo ventennio, quando Pechino ha spinto a ritmi vertiginosi la strategia di modernizzazione.

Oggi la Cina, nonostante i programmi sulle energie rinnovabili, è di gran lunga il paese che emette più gas serra, il suo capitalismo di stato è responsabile di quasi il 30% delle emissioni globali di biossido di carbonio. Gli Stati Uniti vengono subito dopo. La Cina, di gran lunga il paese emergente di maggior successo, sembra così evidenziare l’impossibilità di una modernizzazione capitalista in ritardo. L’idea che le economie semiperiferiche, per anni celebrate come le “locomotive dell’economia mondiale”, possano giungere ai livelli economici dei centri non è solo imbarazzante data l’attuale crisi, particolarmente pesante per molti paesi emergenti come la Turchia e il Brasile, ma è anche in contrasto totale con i limiti ecologici esterni del capitale, limiti evidenti nella crisi climatica.

Anche quei paesi che, diversamente dalla Cina, non hanno raggiunto i livelli economici dei centri, vedono crescere le emissioni rispetto al 1990: 115% in Brasile, 186% in Turchia, 215% in Indonesia, fino al 305% dell’India. Gran parte dell’aumento delle emissioni di gas serra nel ventunesimo secolo è pertanto attribuibile alla crescita nei paesi emergenti, anche se occorre tener conto degli effetti del collasso economico seguito al collasso del socialismo di stato sovietico, per cui le emissioni di gas serra in Russia (25%) e in Ucraina (73%) sono ancora ai livelli del 1990.

Per limitare l’aumento della temperatura globale a una media di 1,5° e prevenire la crescita incontrollata della crisi climatica, secondo il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Pnuma) occorre tagliare le emissioni di 15 miliardi di tonnellate l’anno a partire dal 2030. Un tanto corrispondente alle emissioni totali di Ue, India, Russia e Giappone. Secondo lo studio del Pnuma, i provvedimenti statali contro i cambiamenti climatici dovrebbero essere quintuplicati in una gigantesca dimostrazione di forza; all’umanità “ha sempre meno tempo”. Le economie dei paesi industrializzati e emergenti del gruppo G20, responsabili del 78% circa delle emissioni globali, hanno responsabilità primaria.

Ridurre subito dell’80% la combustione di carbone

Dopo aver perso tempo per decenni, occorre ora un cambiamento radicale di direzione. Che non si vede. Perché, ad esempio, l’eliminazione progressiva delle centrali a carbone, iniziata in molti paesi industriali, è più che compensata dalle nuove centrali dei paesi emergenti, così che le quantità globali nei prossimi anni potrebbero ancora crescere un po’. Servirebbe invece una riduzione immediata dell’80% circa.

Pertanto non sorprende se dall’inizio del secolo le emissioni globali sono calate solo nel 2009, in seguito al crollo economico determinato dalle bolle immobiliari nella Ue e negli Stati Uniti. La Repubblica Popolare Cinese fu considerata il “salvatore” dell’economia mondiale, il cui intervento, assieme a quello statunitense, riuscì a stabilizzare il sistema con enormi pacchetti di stimolo economico: l’anno seguente le emissioni, già calate dell’1,4% nel 2009, si ridussero del 5,9%. Uno scenario simile si prospetta per quest’anno di crisi, con una politica economica keynesiana che cerca di bloccare il più in fretta possibile il crollo delle emissioni causato dalla pandemia.

A maggio, dopo lo scoppio della pandemia, per la prima volta da decenni nelle aree industrializzate cinesi è stato possibile respirare nel vero senso della parola. Secondo i media, la lotta alla crisi economica, una priorità assoluta dell’oligarchia di stato data la paura costante di un’instabilità politica, ha temporaneamente tolto la protezione climatica dai programmi politici. Il capitale contro il clima, un’animosità espressa anche all’ultimo vertice della Ue a Bruxelles, dove gli obiettivi climatici di fondo sono stati abbondantemente sacrificati in nome delle controversie nazionali sulla crescita e gli aiuti economici.

La rapida crescita della Cina, accompagnata da contraddizioni interne e combinata con la crisi climatica, ha scatenato due reazioni ideologiche opposte presso il pubblico occidentale. Da un lato, la tendenza a vedere la Cina sempre più come concorrente, se non nemico, geopolitico, si allarga fino a comprendere una dimensione ecologica per cui l’immagine del classico nemico borghese, il “pericolo giallo”, si fonde con la preoccupazione per l’imminente collasso climatico. Dall’altro lato crescono le reazioni rassegnate che di fronte all’aumento delle emissioni in Cina e nei paesi emergenti negano qualunque senso alla politica climatica dei centri capitalisti unicamente per restare aggrappati al capitalismo dei combustibili fossili.

Le emissioni pro capite sono maggiori in Germania che in Cina

Per contro, in rapporto alla popolazione le emissioni di gas serra tedesche superano quelle cinesi. 7,95 tonnellate pro capite della Cina contro le 9,1 della Germania. Negli Stati Uniti si arriva a 16,1. Questa visione imperialista che critica la crescita rapida delle emissioni nei paesi semiperiferici arriva all’assurdo totale in fatto di emissioni storiche: se in Cina le emissioni sono cresciute rapidamente solo negli ultimi vent’anni, in paesi come la Germania e gli Stati Uniti l’industria ha più di un secolo.

Voler imporre a forza la modernizzazione capitalista ai paesi emergenti è una pazzia ecologica, ma nei vecchi centri della prosperità è vietato contestare il diritto dei paesi emergenti di recuperare il gap economico. Dentro la logica economica, dentro la gabbia del pensiero capitalista, dove avviene ancora gran parte del discorso pubblico sul clima, per i paesi emergenti c’è soltanto, oltre al solito silenzio, l’opzione tra negare la modernizzazione e il legame con il centro oppure ignorare i cambiamenti climatici, separando nettamente il relativo discorso pubblico e relegandolo ad una degenerazione della tradizione borghese.

L’evidente assurdità ecologica di produrre nei paesi emergenti per poi trasportare i prodotti dall’altra parte del mondo illustra l’incompatibilità di fondo del capitalismo con la protezione del clima. Ne è prova il fatto che le emissioni globali calano soltanto in occasione di forti crisi economiche ugualmente globali. Il fuoco della circolazione globale non deve spegnersi, soprattutto nei paesi emergenti che necessitano di un tasso di crescita particolarmente elevato a causa delle fortissime contraddizioni sociali. Qui fermarsi significa crisi.

Agli occhi della relazione reale-astratta del capitale, il mondo concreto rappresenta solo una fase di transizione necessaria al fine di accumulare quantità crescenti di lavoro salariato astratto producendo merci. Con la mediazione del mercato, il capitale sviluppa a livello globale la sua dinamica che consiste nella massima autovalorizzazione possibile senza tener conto delle conseguenze sociali e ecologiche del proprio movimento di valorizzazione. Tutta la società capitalista dipende dalla poca ricchezza che, per così dire sotto forma di tasse e salari, sgocciola da questo processo di combustione feticista per cui materie prime e energia vengono consumate per mezzo del lavoro salariato (la sostanza del capitale), al fine di trasformare il denaro in più denaro in un processo senza fine.

La pazzia del capitalismo dei combustibili fossili obbedisce ad un movimento irrazionale. La Cina, con il suo capitalismo di stato, doveva far ripartire l’economia a costo di ignorare la crisi climatica, poiché in caso contrario rischiava di far collassare una formazione sociale che è semplicemente lo strumento di una dinamica della valorizzazione completamente impazzita; queste restrizioni economiche reali evidenziano bene nei paesi emergenti quella contraddizione di fondo tra capitale e clima che nei paesi del centro capitalista può essere nascosta con l’ideologia della modernizzazione verde: collasso economico oggi o collasso climatico domani. In realtà, questo riduce il margine di manovra della classe politica tanto nei paesi emergenti quanto in quelli industrializzati; nell’impeto della crisi, fattori economici e fattori ecologici si intrecciano intimamente.

Tutto il potenziale di distruzione creato dal tardo capitalismo è evidente nella merce “forma elementare” della ricchezza capitalista (Marx), dove il valore d’uso conta solo come portatore di valore, e dove la qualità materiale-concreta del corpo delle merci, creata utilizzando energia, materie prime e manodopera, serve solo a realizzare il plusvalore reale-astratto (ovvero, quel quantum di tempo socialmente necessario oggettivato nel corpo della merce) con la vendita sul mercato. Il risultato è che quanto più cresce la produttività, mediata dalla concorrenza, tanto minore è il lavoro che entra nella singola merce come sostanza, e tanto maggiore è la spinta a vendere più merci per utilizzare la stessa quantità di capitale.

Dato che il lavoro salariato forma la sostanza del capitale, l’aumento della produttività aumenta anche la voglia di bruciare della macchina del plusvalore del capitalismo globale. La fuga, ecologicamente devastante, del capitale in direzione di paesi emergenti e con salari bassi, il suo futile desiderio di tornare, per così dire, all’ottocento, è espressione diretta di questa contraddizione interna del capitale. In questi decenni di globalizzazione neoliberale, l’invasione di pattume a basso costo prodotto con il vecchio sfruttamento capitalista nei paesi emergenti, pattume che diventa subito obsoleto e che viene venduto nei centri indebitati e socialmente erosi, rappresenta l’espressione concreta del sovrapporsi delle barriere interna ed esterna del capitale.

Un aggiustamento globale delle condizioni di vita è possibile solo in forma post-capitalista

Il risultato di quanto detto è una verità scomoda per molti militanti di sinistra pragmatici: uno sviluppo sostenibile della periferia del sistema mondiale, un aggiustamento globale delle condizioni di vita è concepibile solo oltre il capitale, in un sistema mondiale post-capitalista dove la coscienza della riproduzione sociale non obbedisce più all’attuale furia (Amok) dei “mercati” incontrollati, ma si concentra nella lotta globale contro gli effetti a distanza della crisi climatica capitalista.

Questo può apparire un’illusione, vista la realtà tardo-capitalista, ma la conditio sine qua non del processo di civilizzazione del ventunesimo secolo, date le contraddizioni interne della dinamica feticista del capitale illustrate, è che il capitalismo finisca nei libri di storia e che i bisogni dell’uomo vengano liberati dalle costrizioni della forma merce. Qui non si tratta di fare volontariato radicale, ma di capire che occorre sopravvivere. Il divieto di superare i limiti del capitalismo è pertanto l’ultimo divieto imposto dal capitale in agonia.

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