Gli imitatori

Sulla scia dell’aggressione russa contro l’Ucraina, si profila la minaccia di ulteriori conflitti di annessione armata alla periferia e alla semiperiferia del sistema mondiale in crisi –

31.12.2023 di Tomasz Konicz

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, fa ben pochi sforzi per nascondere le sue ambizioni imperiali sul Caucaso meridionale. Dopo la conquista e la pulizia etnica dell’antica regione armena del Nagorno-Karabakh, da parte dell’alleato Azerbaigian, ora tocca al cosiddetto corridoio di Sangesur, nel sud dell’Armenia, a essere preso di mira dai governi di Ankara e di Baku. Nel 1920, questa regione confinante con l’Iran, che blocca un ponte terrestre tra Turchia e Azerbaigian, venne annessa all’Armenia dall’Unione Sovietica; e bisogna che oggi questa ingiustizia storica venga rimossa. La creazione di un corridoio sul territorio armeno meridionale è una „questione strategica“, ha dichiarato il presidente turco nel corso di un incontro con il suo omologo azero Ilham Aliyev, durante l’enclave di Nakhichevan, alla fine di settembre. Così, nel giro di poche settimane, la Turchia e l’Azerbaigian hanno compiuto un’inversione a U che può essere definita orwelliana: l’espulsione completa degli armeni dal Nagorno-Karabakh – descritta dai media statali turchi come una „operazione antiterrorismo“ – che precedentemente, nel 1921, era stata legittimata da entrambi i governi, ai sensi del diritto internazionale, a partire dalla solitaria decisione dell’allora commissario del popolo sovietico per le nazionalità, Josef Stalin, di annettere questa antica area di insediamento armeno alla Repubblica Sovietica dell’Azerbajan. Così, mentre nel caso del Nagorno-Karabakh la demarcazione sovietica dei confini è stata trasformata, come se fosse una cosa ovvia, nella base ideologica della pulizia etnica di quella regione (essendo stata, questa tesi del fornitore di petrolio Aliyev, prontamente condivisa nell’Occidente interessato al petrolio), nel caso del corridoio di Sangesur – che deve essere oggetto di negoziati con l’Armenia – Erdogan e Aliyev sostengono esattamente il contrario: e qui „l’ingiustizia“ sovietica va invece rivista.

Link: https://francosenia.blogspot.com/2023/12/aspettando-il-collasso.html

Non è certamente un caso che questo tipo di discorso, ricordi le osservazioni fatte dal presidente russo Vladimir Putin all’inizio dell’invasione dell’Ucraina, secondo cui Lenin e i bolscevichi avevano fatto alla Russia una grave ingiustizia, dal momento che i sovietici avevano formato l’Ucraina a partire da quelli che erano i territori storici della Russia. Allo stesso modo, l’espulsione degli armeni dal Nagorno-Karabakh può a sua volta essere descritta come se fosse un conflitto analogo che imita l’aggressione russa, nel quale l’Azerbaigian e la Turchia, sulla scia della guerra in Ucraina, cercano di raggiungere i loro obiettivi regionali attraverso la forza militare e la pulizia etnica. Il calcolo è semplice: la guerra di logoramento dell’Ucraina sta esaurendo le risorse militari, sia a Est che a Ovest; cosa che riduce il rischio che da parte delle grandi potenze ci sia una risposta militare alle avventure militari in quella che è una regione che viene considerata un cortile di casa come il Caucaso meridionale, soprattutto perché la dipendenza, che l’Europa ha dalle fonti energetiche azere, riduce al minimo il rischio di sanzioni. La guerra terroristica di Hamas contro Israele, e la minaccia di un conflitto tra gli Stati Uniti e l’Iran hanno intensificato ulteriormente il rischio di un eccessivo sconfinamento militare da parte degli stati occidentali. Pertanto, di conseguenza, non è solo in Azerbaigian che si sta studiando, sulla scia dell’aggressione russa, fino a che punto si possa avanzare militarmente senza dover fare i conti con delle gravi conseguenze provenienti dalle superpotenze. C’è anche il Venezuela che ora vorrebbe correggere, se necessario con mezzi militari, quella che ritiene sia una vecchia „ingiustizia“; la quale, in questo caso, risale al XIX secolo: ossia, il confine, tracciato nel 1840 dalla potenza coloniale britannica, tra il Venezuela e l’allora colonia della Guyana inglese non è mai stato accettato dal Venezuela, che perciò ora sta rivendicando la regione occidentale guyanese dell’Essequibo, che a seguito di una decisione arbitrale del 1899, era stata in gran parte assegnata all’ex impero. Il conflitto, divampato per un breve periodo negli anni ’60, nel corso della decolonizzazione della Guyana; per poi essere in gran parte praticamente congelato fino al 2015, allorché la Guyana ha assegnato alla compagnia petrolifera statunitense Exxon delle concessioni per estrarre dalle enormi riserve dei giacimenti petroliferi che si trovano al largo della costa di quella regione contesa immersa nella giungla, dove vivono solo 125.000 persone. Nel contesto di una grave crisi economica, di un’inflazione galoppante, e di un basso indice di gradimento nei sondaggi, il presidente venezuelano Nicolás Maduro, all’inizio di dicembre ha indetto un referendum circa l’annessione della regione contesa, la quale copre circa i due terzi del territorio della Guyana. Secondo i dati ufficiali, oltre il 90% dei partecipanti al referendum – il 51% di tutti gli aventi diritto al voto – ha votato a favore dell’annessione. A partire da allora, il governo ha decretato che vengano stampate solo mappe venezuelane in cui, come nuova provincia, ci sia Essequibo. Nel frattempo, Le truppe venezuelane e brasiliane hanno già marciato verso il confine con la Guyana, che ha una popolazione di appena 800.000 abitanti, e che sta vivendo un frenetico boom petrolifero. Il 9 dicembre, il presidente brasiliano Luiz Inácio „Lula“ da Silva ha ammonito Maduro per dissuaderlo dall’innescare un’escalation del conflitto alla frontiera.

La Guyana ha tutto ciò che manca all’Armenia: vale a dire, giacimenti di materie prime strategicamente importanti, che sono il motivo per cui gli Stati Uniti – a differenza dell’ex protettore dell’Armenia, la Russia – hanno già inviato dei chiari avvertimenti al governo venezuelano, annunciando manovre congiunte con le forze armate della Guyana. Viceversa, invece, il regime internazionalmente isolato dell’Eritrea – che viene spesso descritto come la Corea del Nord dell’Africa – difficilmente potrà sperare che ci sia un rapido intervento da parte di una grande potenza. Con il suo porto di Assab, nel sud dell’Eritrea, questo paese dell’Africa orientale ha accesso a tutte quelle rotte commerciali marittime globali, a cui l’Etiopia – senza sbocco sul mare, con i suoi oltre 120 milioni di abitanti – è stato negato dall’indipendenza dell’Eritrea del 1993. Conseguentemente a una guerra di confine tra i due paesi, dal 1998 al 2000, l’Etiopia non ha potuto più utilizzare i porti dell’Eritrea, per mezzo dei quali, precedentemente, veniva gestito gran parte del suo commercio; ragion per cui il paese, ora senza sbocco sul mare, deve effettuare attraverso il porto di Gibuti quello che è circa il 90% del suo commercio estero, pagando dazi per miliardi. Solo nel 2018, entrambi i paesi sono riusciti a porre fine allo stato di guerra, e hanno avviato la normalizzazione. E così, tra il 2020 e il novembre 2022, durante la sanguinosa guerra civile nella provincia settentrionale etiope del Tigray, segnata da gravi crimini di guerra, le forze armate di Etiopia ed Eritrea hanno perfino cooperato alla repressione della rivolta del Fronte di liberazione del popolo del Tigray (TPLF). Ma da ottobre, il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha cominciato a manifestare sempre più chiaramente la volontà di essere pronto ad andare in guerra per ottenere l’accesso al Mar Rosso; mentre le truppe etiopi si ammassano al confine con l’Eritrea. Ahmed ha descritto l’accesso al mare, definendolo come una questione di sopravvivenza per l’Etiopia. Il porto di Assab è considerato l’obiettivo primario di un possibile attacco etiope, ma si dice anche che Ahmed abbia minacciato la completa conquista dell’Eritrea.

Con „l’attenzione del mondo concentrata su Gaza“, il governo etiope potrebbe essere tentato dall’idea di „creare dei fatti“, ha commentato la rivista statunitense Foreign Policy. Tuttavia, una guerra per conquistare rapidamente un porto marittimo – le forze armate etiopi hanno già creato una loro Marina – potrebbe anche trasformarsi in una catastrofe per la regione, a partire dal fatto che l’Etiopia è uno Stato interessato da un gran numero di conflitti regionali, e in cui già imperversano diverse guerre civili, come ad esempio nella regione nord-occidentale di Amhara, e contro le milizie del gruppo etnico degli Oromo. Le autorità etiopi hanno ripetutamente accusato l’Eritrea di appoggiare la rivolta in Amhara. La migliore ipotesi, per il regime eritreo di sopravvivere a uno scontro con l’Etiopia, sarebbe quella di fare tutto ciò che è in suo potere per alimentare il più possibile queste guerre civili. Una guerra di conquista etiope contro l’Eritrea – il cui regime obbliga gran parte della sua popolazione a prestare un servizio militare neofeudale senza alcun limite di tempo – potrebbe finire per trasformarsi in una guerra di de-nazionalizzazione, la quale destabilizzerebbe tutta la regione dell’Africa orientale; è già successo, nel 1977-1978 in particolare, che il collasso dello Stato della vicina Somalia venisse accelerato proprio da una fallita invasione dell’Etiopia. Tutti questi conflitti imitativi, in corso o imminenti, nella periferia e nella semiperiferia del sistema mondiale in crisi, ci offrono uno spaccato di quella che è la realtà dell’emergente „ordine mondiale multipolare“, del quale il presidente russo Putin ama così tanto parlare. Si tratta, infatti, nella manifesta crisi mondiale del capitale, di un disordine mondiale multipolare, rispetto al quale, né gli Stati Uniti in declino né la Cina possono assumere il ruolo di egemone, o di poliziotto mondiale imperiale, e dove, di conseguenza, vediamo sempre più Stati tentati di compensare le proprie crescenti contraddizioni interne, causate dalla crisi, per mezzo dell’aggressione esterna. Fino a che lo Stato non comincerà a collassare.

Tomasz Konicz – Pubblicato il 21/12/2023 su Jungle World

Nach oben scrollen