Il nearshoring come presagio della fine dell’era della globalizzazione
21.11.2023, di Tomasz Konicz
Da un po‘ di tempo a questa parte, le aziende tendono a delocalizzare parte della loro produzione nel paese più vicino, con una forza lavoro qualificata e con fusi orari simili. Perché vagare lontano nella crisi capitalistica permanente, quando le catene di sfruttamento e di valorizzazione possono essere annodate tra di loro anche stando un po‘ più vicino?
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Nella stampa economica, sta sempre più emergendo una nuova parola d’ordine, che segnala, in maniera quasi paradigmatica, la fine dell’era della globalizzazione: il nearshoring [dislocazione ravvicinata]. Concepito in contrapposizione al cosiddetto offshoring, il nearshoring si riferisce alla tendenza a costruire delle catene produttive regionali, con l’obiettivo di rimettere in discussione quelle che oggi sono le forme globali di organizzazione, nella produzione di merci, emerse nell’era neoliberista. A partire dagli anni ’80, i costi di trasporto storicamente bassi, e la comunicazione globale in tempo reale sulla scia della rivoluzione informatica, hanno consentito alle multinazionali di sfruttare le gigantesche differenze salariali tra la periferia e i centri del sistema globale capitalista, costruendo delle catene di produzione globali, a partire dall’esternalizzazione delle fasi di produzione ad alta intensità di costi e manodopera, nei paesi a basso salario: il cosiddetto offshoring. A tuto questo, si è sommata l’esternalizzazione su larga scala: le aziende hanno chiuso intere aree produttive nei paesi industrializzati tradizionali, e le hanno esternalizzate affidandole a dei subappaltatori, come ad esempio in Cina. È stato questo il motivo per cui Apple non produce più i propri smartphone, ma li fa produrre a dei produttori a contratto, come Foxconn, in condizioni di lavoro brutali nelle caserme delle fabbriche cinesi. E non è solo l’ascesa della Cina, in quanto officina del mondo durante l’era della globalizzazione, ad aver reso popolare il nearshoring, soprattutto negli Stati Uniti deindustrializzati e sempre più protezionisti. La lotta tra Stati Uniti e Cina per l’egemonia, aumenta il rischio di una guerra su larga scala, ragion per cui Washington sta anche cercando di ridurre gli enormi deficit commerciali degli Stati Uniti, insieme alle dipendenze dalla Repubblica Popolare, per quelle che sono delle 0agioni geopolitiche. Sullo sfondo delle crescenti tensioni nella regione del Pacifico, possiamo vedere come si sta profilando l’imminente collasso dell’economia globale in deficit dell’era neoliberista, nella quale l’indebitamento – soprattutto negli Stati Uniti – è cresciuto più rapidamente di quanto la produzione economica globale abbia agito come il motore economico più importante, ad esempio, per quei paesi orientati all’esportazione, come la Cina o come la Germania. In generale, la crescente vulnerabilità alle crisi del sistema globale capitalista sovra-indebitato ed ecologicamente devastato, che viene sempre più scosso da dei conflitti, da eventi estremi e da sempre nuovi scatti di crisi, sta dando origine a delle corrispondenti tendenze alla de-globalizzazione. Un punto di svolta in tal senso, è stato sicuramente lo scatto di crisi innescato dalla pandemia, che nel 2020 ha portato all’interruzione di molte catene di approvvigionamento globali; inoltre, c’è stata anche l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, sulla scia della quale le guerre economiche e il protezionismo si sono ulteriormente espansi, continuando a intensificarsi sempre più. Attualmente, le tendenze più forti al nearshoring si osservano in Messico, paese che, secondo il servizio di notizie economiche Bloomberg, è uno dei „vincitori“ delle dispute commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina. Nel luglio 2023, le importazioni di merci messicane hanno raggiunto un massimo storico del 15%, per quanto riguarda tutte le importazioni negli Stati Uniti, superando per la prima volta le spedizioni provenienti dalla Cina (14,6%). Mentre la quota di importazioni della Cina negli Stati Uniti – che aveva raggiunto il suo massimo storico del 21,8% nella primavera del 2018 – ora è scesa al livello più basso dal 2006, mentre il vicino meridionale degli Stati Uniti è diventato il partner commerciale più importante degli USA. Nei primi quattro mesi di quest’anno, il commercio bilaterale, è arrivato a 263 miliardi di dollari. E dovrebbe continuare a crescere. La banca d’investimento Morgan Stanley prevede nei prossimi cinque anni un rapido aumento delle esportazioni industriali messicane verso gli Stati Uniti, che dovrebbero aumentare da 455 miliardi di dollari USA a 609 miliardi all’anno. Negli ultimi anni, la quota della produzione industriale nel prodotto interno lordo del Messico è infatti aumentata notevolmente – in realtà, la cosa è avvenuta a partire dall’introduzione del corso apertamente protezionista dell’amministrazione Donald Trump contro le importazioni principalmente cinesi – passando da circa il 15,6% nell’anno pandemico 2020 a circa il 16,7% nel primo trimestre del 2023.
Messico: una seconda Europa centro-orientale?
Oltre tutto, i livelli salariali a sud del Rio Grande continuano a essere ancora molto bassi. Alla fine del 2021, il lavoro nella produzione industriale messicana costava in media $2,80 l’ora, mentre all’inizio del 2022 negli Stati Uniti la media era di $24,55. Il Messico continua pertanto a essere un paese di salari bassi. Tuttavia, non si tratta solo della produzione di manodopera intensiva, come quella che è state esternalizzata nelle zone industriali esenti da tasse e imposte, le cosiddette „maquiladoras“, nella zona di confine con gli Stati Uniti – dopo che c’è stato il famigerato Accordo di libero scambio nordamericano (NAFTA) del 1994, tra gli Stati Uniti, il Messico e il Canada – laddove si sono stabilite le aziende di assemblaggio, che stanno alimentando il boom industriale del Messico. Nel frattempo, le imprese stanno anche continuando a delocalizzare verso il Messico i loro settori di ricerca e di capitale ad alta intensità, come ha riferito Der Spiegel, a proposito delle aziende tedesche, Audi e l’azienda chimica Evonik. A prima vista, la differenza di costi salariali tra il centro e la semi-periferia, che ha provocato l’industrializzazione di quest’ultima, ricorda superficialmente la situazione dell’Europa centrale e orientale dopo l’adesione all’UE. Nel primo decennio del XXI secolo, è stato il capitale industriale tedesco orientato all’esportazione, ad aver sfruttato la sua vicinanza ai paesi a basso salario dell’Europa orientale, per integrarli nelle sue catene di produzione globali, viste come piani di di lavoro allargati; e ottenere così enormi vantaggi competitivi sul mercato mondiale. La grande differenza, tra l’esternalizzazione della produzione nell’Europa centro-orientale e l’attuale nearshoring in America centrale, è che non si tratta più di ottenere vantaggi competitivi sui mercati globalizzati. Gli investimenti industriali in Messico sono motivati solo dal calcolo di ottenere una posizione migliore; o a quello di guadagnare l’accesso all’esenzione doganale nel grande e sempre più isolato mercato statunitense. Rispetto agli altri, il leader, in termini di investimenti diretti in Messico, è di gran lunga il capitale americano. Nel primo trimestre del 2023, le società statunitensi hanno investito nel loro vicino meridionale 6,4 miliardi di dollari, quasi il doppio del capitale delle società spagnole, che hanno speso 3,8 miliardi di dollari. Nello stesso periodo, 1,3 miliardi di dollari sono affluiti dalla Germania per alimentare il mercato emergente dell’America centrale. Nel 2022, con 15 miliardi di dollari, è stato destinato al Messico circa il 42% di tutti gli investimenti diretti esteri (IDE) degli Stati Uniti. L’Europa, in Messico lo scorso anno ha rappresentato il 12,3% di tutti gli IDE, seguita da vicino dal Canada con il 10,7%. Tutti questi capitali sono stati convogliati principalmente negli Stati settentrionali e nell’area di Città del Messico. Al centro delle attività di investimenti stranieri, vediamo che c’è stata produzione industriale, e in particolare il settore automobilistico, .
La rivincita della globalizzazione
Anche le società cinesi – che finora non hanno svolto quasi alcun ruolo in Messico – stanno ora rapidamente espandendo le loro attività di investimento. Mentre, nel 2018 le aziende della Repubblica Popolare avevano investito in Messico soltanto 67 milioni di dollari USA, questa cifra, nel 2022 era già aumentata fino a 406 milioni di dollari. Lo stesso vale anche per gli IDE di Hong Kong, i quali nello stesso periodo sono passati da $10 milioni a $124 milioni. Attraverso questa strategia di investimento, la Cina sta semplicemente tentando di minare il nuovo protezionismo degli Stati Uniti. Nei prossimi anni, le aziende cinesi intendono arrivare a investire fino a cinque miliardi di dollari in un parco industriale nello stato di Nuevo León, al fine di insediarvi 120 imprese, e creare così 7.000 posti di lavoro, stando a quel che riferisce la stampa cinese. È probabile che le attività di investimento delle società tedesche in Messico, siano motivate da un calcolo assai simile; di fatto, l’obiettivo è quello di mettersi sotto l’ombrello della North American Free Trade Area (USMCA), la quale comprende Stati Uniti, Messico e Canada, e che è stata creata nel 2018 a partire dalla riforma dell’accordo NAFTA. Il quotidiano economico britannico, The Economist, ha lamentato che la strategia protezionistica di Trump, portata avanti dall’amministrazione del suo successore Joe Biden, semplicemente non sta funzionando, e questo perché le catene di approvvigionamento stanno diventando sempre più «aggrovigliate e poco trasparenti», dal momento che i regolamenti dell’USMCA discriminano tutte le località che si trovano al di fuori di questa zona. Ma la vecchia globalizzazione si sta ora prendendo, per così dire, la sua rivincita sul nuovo protezionismo. Per esempio, con gli impianti solari cinesi che alla fine del 2022 sono stati esportati negli Stati Uniti passando attraverso i paesi del sud-est asiatico, apportando loro, per poterlo fare, delle „piccole modifiche“ durante lo scalo. Sembra che ora la Cina voglia creare, nel nord del Messico, simili „fabbriche di riqualificazione“. Questo boom, tuttavia, è di per sé un altro fenomeno di crisi, e il fatto che possa proseguire è tutt’altro che certo. Sebbene, negli ultimi anni, gli investimenti in Messico siano aumentati – passando da circa 28 miliardi di dollari nel 2020, a circa 36 miliardi di dollari nel 2022 – finora hanno raggiunto quello che era solo il livello di investimento prima dell’inizio della pandemia.
Un boom effimero?
Inoltre, il Messico, che finora era stato considerato come un perdente del libero scambio, dato che il mercato emergente aveva finora registrato solo una crescita economica media del 2% l’anno; e questo «non è sufficiente per far uscire milioni di messicani dalla povertà», come ha anche osservato anche il servizio economico di Bloomberg. L’attuale ripresa dell’attività industriale nei mercati emergenti è stata quindi in gran parte dovuta alla decisione strategica degli Stati Uniti di ridurre la loro dipendenza economica dalla Cina. Di conseguenza, il Messico si trova a essere sempre più dipendente dal mercato statunitense, il quale ora sta sostenendo la sua ripresa attraverso investimenti finanziati dal debito e per mezzo di programmi di stimolo; nonché grazie all’aumento delle barriere commerciali. Nel frattempo, la leadership politica ed economica degli Stati Uniti deve anche difendere quella che è la posizione del dollaro USA in quanto valuta mondiale, e deve farlo con tutti i mezzi geopolitici e – in ultima analisi – militari disponibili. Di conseguenza, quella che sarà la prossima ondata di crisi negli Stati Uniti – dove si stanno accumulando deficit di bilancio sempre più giganteschi, e dove le misure anti-inflazione stanno spingendo i rendimenti obbligazionari al di sopra del 5 per cento – porrà fine anche al boom industriale, e di conseguenza a quello degli investimenti in Messico, che è di fatto solo un’appendice di questa economia in deficit degli Stati Uniti. Infine, in Messico, a diventare sempre più evidenti, sono i limiti ecologici del capitale. Ad esempio, nell’arido Messico settentrionale, che soffre di ondate di caldo estremo, che ostacolano molti insediamenti industriali a causa della loro elevata domanda di acqua, la crisi idrica sta peggiorando. A febbraio, ad esempio, il presidente messicano, Andrés Manuel López Obrador, ha cercato di convincere il produttore statunitense di auto elettriche, Tesla, a costruire uno stabilimento a Nuevo León, nel sud del paese, ricco d’acqua, visto che nel nord del paese la carenza d’acqua è ora un problema serio. Lo scorso anno, l’azienda idrica messicana, Rotoplas, ha messo in guardia a proposito del fatto che si potrà verificare una situazione di siccità sempre più crescente, che probabilmente, a lungo termine, avrebbe esacerbato il problema idrico; cosa che avrebbe influito anche sull’economia. A questo si aggiunge l’eredità rovinosa dell’era neoliberista, durante la quale gli investimenti statali nelle infrastrutture sono stati spesso tagliati. Nel 2012, ad esempio, il governo federale messicano aveva speso l’equivalente di circa 2,6 miliardi di dollari in progetti per migliorare l’approvvigionamento idrico, mentre nel 2022 erano già scesi a solo 1,3 miliardi. Tuttavia, in vista della ripresa industriale, il governo vuole cambiare rotta e aumentare la corrispondente voce di bilancio, portandola quest’anno a 3,53 miliardi di dollari quest’anno.
Tomasz Konicz – Pubblicato il 9/10/2023 su Jungle World