BIDENOMICS!!

L’improvvisato Masterplan di Biden

26.08.2023, di Tomasz Konicz

Le cosiddette „Bidenomics“ sono qualcosa di più di una nuova parola d’ordine del dipartimento delle Pubbliche Relazioni della Casa Bianca? In ogni caso, comunque sia, il presidente sta pubblicizzando questo termine, ritenendo che potrebbe aiutarlo a vincere la rielezione del prossimo anno. Le „Bidenomics“ dovrebbero rappresentare una «rottura fondamentale», tipo quella che a suo tempo hanno costituito le cosiddette „Reaganomics“: le politiche neoliberiste degli anni Ottanta che si basavano sulle agevolazioni fiscali per le imprese e per i ricchi, sul libero scambio senza ostacoli e sul Laissez-faire del mercato; almeno così ha dichiarato Joe Biden durante una sua conferenza che ha tenuto a Chicago.

Link: https://francosenia.blogspot.com/2023/08/bidenomics.html

Questa nuova strategia economica introdurrebbe tre «cambiamenti fondamentali»: gli «Investimenti Intelligenti in America», da parte del governo; la «Formazione e il Potenziamento dei lavoratori americani», in modo da ampliare così la classe media; e la «Promozione della Concorrenza al fine di ridurre i costi e aiutare le piccole imprese». Secondo Biden, le „Bidenomics“ dovrebbero consistere in tutta una serie di programmi keynesiani di stimolo, i quali procederebbero di pari passo con il Protezionismo e mirerebbero alla Reindustrializzazione degli Stati Uniti, insieme al Rafforzamento del ruolo dei Sindacati e alla Lotta contro i monopoli e gli oligopoli nel settore economico. Il nuovo termine è stato accolto dai media, che lo hanno ripreso con gratitudine. Il Financial Times ha visto nelle „Bidenomics“ niente di meno che la realizzazione di quello „Spirito del Mondo“ hegeliano, che ora sta facendo oscillare globalmente il «pendolo della storia», portandolo dal neoliberismo alla «politica industriale e alla supervisione governativa dei mercati», attuando così uno sconvolgimento storico. Secondo il New York Magazine, l’amministrazione Biden avrebbe addirittura annunciato la «morte del neoliberismo», mentre The Atlantic vede in tutto questo già l’emergere di un nuovo «Washington Consensus» post-neoliberista caratterizzato da «nazionalismo economico».

Queste valutazioni sono corrette nella misura in cui il modello neoliberista della gestione della crisi si è esaurito, al più tardi con la pandemia di Covid-19, e l’attuale svolta nella politica economica è solo una reazione a questa situazione. Le offensive per la privatizzazione, messe in atto allo scopo di aprire nuovi campi di sfruttamento, di globalizzazione e di libero scambio, per mezzo di mercati finanziari rampanti ed economia delle bolle finanziarie; tutte queste strategie neoliberiste, che in risposta alla stagflazione degli anni settanta hanno prevalso in tutto il mondo, per decenni sono state considerate ricette di successo solo perché, dagli anni Ottanta, il sistema mondiale è stato sempre più a credito. Il debito globale è aumentato più rapidamente di quanto lo abbia fatto la produzione economica globale, in particolare con gli Stati Uniti, grazie al dollaro USA come valuta di riserva mondiale, i quali hanno accumulato deficit commerciali sempre maggiori e montagne di debito, essendo il mercato di vendita più importante del mondo. Pertanto, le eccedenze delle esportazioni di Cina e Germania costituiscono solo il rovescio della medaglia della de-industrializzazione degli Stati Uniti nel contesto di un sistema globale che poteva riuscire solo a rimandare la crisi del capitale – il quale stava soffocando nella propria produttività – per mezzo di una crescita finanziata dal credito, che in tal modo pagava in anticipo la valorizzazione futura. Questo processo, accompagnato dall’erosione della classe media statunitense, dopo la crisi economica del 2008/2009 ha trovato la sua espressione politica : il successo del populista fascista di destra Donald Trump, che ha parlato del declino degli Stati Uniti, e soprattutto di quello delle sue regioni industriali, usando i toni più crudi e più cupi. Ora Biden sta adottando la medesima retorica di Trump che parla di un’auspicata reindustrializzazione degli Stati Uniti, combinandola però – a differenza di Trump – con il patrocinio dei sindacati e il sostegno alle industrie basate sulle energie rinnovabili.

Tuttavia, dal 2021 in poi, è stato il forte aumento dell’inflazione ad aver avuto un impatto ancora più significativo sulla politica economica di Biden. Ora, le banche centrali dovevano scegliere tra combattere l’inflazione e stimolare l’economia. Per riuscire a tenere sotto controllo l’inflazione, la Federal Reserve statunitense e la Banca centrale europea (BCE) hanno aumentato il tasso di interesse di riferimento. La crescita di questi ultimi anni, causata dalla bolla di liquidità sui mercati finanziari, che le banche centrali hanno sempre più gonfiato attraverso la loro politica monetaria espansiva, adesso rischia di finire. All’orizzonte si profila persino la minaccia di un ritorno della stagflazione – bassa crescita accompagnata da un’inflazione persistente. I grandi programmi governativi di stimolo economico statale, hanno lo scopo di contrastare la minaccia della stagnazione. Nel 2021, il Congresso – su iniziativa di Biden e in risposta alla pandemia – ha approvato l’American Rescue Plan accendendo un fuoco di paglia economico del costo di 1.900 miliardi di dollari. A ciò, lo scorso agosto sono seguiti prima sussidi e finanziamenti per l’industria dei microchip per un totale di 52,7 miliardi di dollari USA (Chips and Science Act) e infine l’Inflation Reduction Act da 500 miliardi, che prevede investimenti in infrastrutture e industrie nel campo delle energie rinnovabili; il quale è infarcito di clausole „Buy-American“ delle quali si è lamentata soprattutto l’Unione Europea.

In realtà, è probabile che, dal 2021, siano stati proprio questi requisiti contenuti nei pacchetti di stimolo economico, ad aver portato al raddoppio degli investimenti industriali negli Stati Uniti. Secondo la Casa Bianca, da quando Biden è entrato in carica, le aziende industriali hanno annunciato investimenti per un totale di quasi 500 miliardi di dollari, di cui 231 miliardi di dollari riguardano la produzione di semiconduttori.
La tendenza a dare impulso all’interventismo statale, in risposta a periodi di crisi, non è nuova. Questa fase di crisi che sta iniziando, ci ricorda gli anni Trenta del XX secolo, quando il grande crollo del ’20 innescò in quasi tutti i paesi metropolitani una svolta verso il protezionismo e il nazionalismo. Anche nella reazione all’ondata di crisi del 2007/2008, le persone sono state piuttosto caute al riguardo, ma ora tutto ciò sembra ormai essere stato dimenticato a causa delle crescenti contraddizioni sociali e dell’intensificarsi della concorrenza internazionale tra le sedi industriali. Le misure di stimolo economico e la politica di investimento dell’amministrazione Biden, hanno avuto un discreto successo proprio perché recano in sé quella componente protezionistica che l’UE deplora; e ciò perché tale protezionismo non si è ancora generalizzato – non è ancora diventato il nuovo „Washington Consensus“ – e l’UE non ha ancora adottato nessuna misura corrispondente per poterlo contrastare. Ma nonostante la ripresa degli Stati Uniti associata alle „Bidenomics“ (calo dell’inflazione, rialzo dei mercati azionari, crescita robusta anziché recessione), secondo un sondaggio della CNN, la maggioranza del 51% degli intervistati si vede «ancora in una fase di recessione», e solo il 37% approva le politiche economiche del presidente. Non c’è da stupirsi, visto che le componenti di politica sociale dei pacchetti di stimolo alla pandemia erano state concepite per il breve termine, e pertanto il loro effetto si è esaurito da tempo, mentre i nuovi programmi di politica industriale di Biden hanno potuto essere approvati solo perché hanno tenuto conto degli interessi delle più importanti lobby di capitali.

Dal punto di vista politico, le „Bidenomics“ non sono solamente una risposta al populismo di Trump, ma lo è anche alle richieste della sinistra socialdemocratica e socialista, con la sua figura di riferimento, Bernie Sanders, il quale nell’ultima campagna delle primarie del 2019 contro Biden, aveva chiesto un programma di trasformazione socio-ecologica chiamato „Green New Deal“, per di 16mila miliardi di dollari USA: una somma gigantesca, ma adeguata alla dimensione della crisi. All’epoca, Biden invocava programmi per circa 4.000 miliardi; e dopo tutta una serie di blocchi repubblicani, e di corrispondenti compromessi, tutto ciò è finito per diventare l’Inflation Reduction Act, orientato al protezionismo del valore di 500 miliardi di dollari USA. A questo proposito – come risposta riformista alla crisi ecologica ed economica del capitale – le „Bidenomics“ sono poco più di una raccolta di misure ad hoc legate alla crisi, che vengono vendute come una strategia politica. Tuttavia le „Bidenomics“ – vale a dire, ciò che rimane dei sogni socialdemocratici relativi a una riformabilità del capitalismo, dopo che i suoi rappresentanti si sono fatti strada attraverso le istituzioni della macchina politica di Washington – possono ancora riuscire a spostare temporaneamente sulla concorrenza internazionale le conseguenze della crisi. Fino a quando la concorrenza internazionale non seguirà l’esempio, in termini di protezionismo.

Tomasz Konicz – Pubblicato il 23/8/2023 su Jungle World

Nach oben scrollen